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mercoledì 7 marzo 2012

Marina Abramovic dal 21 marzo al PAC di Milano. In anteprima un articolo/intervista che uscirà sul numero di Io Donna del 10 marzo.

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In anteprima pubblico l'articolo che uscirà sul numero di Io Donna del 10 marzo.  
Intervistata a Marina Abramovic che realizzerà la sua performance dal 21 marzo al PAC di Milano.


“Il corpo è la mia casa. E la mia arte”
Potrebbe abitare ovunque, dice. “L’importante è portarsi dietro
le cicatrici”. Quelle vere, inflitte alla pelle nelle performance
estreme. In attesa di assistere alla prossima, a Milano, abbiamo
incontrato Marina Abramovic. Per parlare di installazioni
e amori. E, a sospresa, di buoni affari immobiliari
di Camilla Baresani, foto di Steve Pyke per Io donna
Marina Abramovic, 65 anni. Dal 21 marzo al Pac
di Milano con The Abramovic Method.


 Seducente e suadente, istrionica e imperiosa, concentrata e coerente. Sono definizioni calzanti per la fenomenale Marina Abramovic, imperatrice della performance art, celebrity con folle di devoti, donna passionale che è riuscita a trasformare gli elementi della sua lunga e complicata vita in un’esplorazione dei limiti fisici e mentali dell’esistenza. Diversamente da altri celebri artisti contemporanei, la Abramovic non crea un’opera per poi lasciarla in una galleria in attesa che qualcuno la compri: è lei stessa l’opera. La sua essenza di artista è nelle performance in cui si mette in gioco davanti al pubblico. «Nel mio caso, se non c’è pubblico non c’è arte. Il pubblico e l’artista sono elementi complementari e inseparabili» spiega. Tagliarsi con rasoi, farsi avvolgere da serpenti, spezzare bicchieri con le mani, frustarsi, stare nuda sdraiata sul ghiaccio, svenire per il fumo dentro una stella dai contorni infuocati, digiunare dodici giorni in un box senza pareti davanti ai visitatori di una galleria; o ancora: spazzolare femori di bovino cercando per tre giorni di pulirli dai brandelli di carne. Tutto questo davanti al pubblico, con gli spettatori che finiscono per sentirsi talmente parte della performance da trasformarsi n tifosi, non semplici appassionati come capita con altre forme d’arte. Ormai Marina è diventata una sorta di icona pop: una sua performance è finita in una puntata del serial di Sex & the City; Lady Gaga, in un video cliccatissimo su YouTube, dichiara la propria devozione al suo culto; l’anno scorso Marina Abramovic. The artist is present al MoMA di New York ha prodotto 500mila visitatori, di cui ben 1.400 si sono avvicendati al tavolo dove lei è rimasta seduta per 700 ore, senza muoversi, limitandosi a guardare, a sua volta guardata. E ora arriva a Milano con un nuovo lavoro: dal 21 marzo sarà al Pac con The Abramovic Method, una mostra e una performance basata sulle tre posizioni basilari del corpo (seduto, in piedi, sdraiato) e sull’interazione tra artista, pubblico, materiali, spazio e tempo. In pratica, la summa della sua riflessione artistica. Il 22 marzo, al cinema Apollo verrà proiettato il documentario sulla performance del MoMA , mentre il 20 marzo alla Galleria Lia Rumma si inaugurerà una seconda mostra sui suoi lavori. abbiamo incontrato marina a casa sua, un loft al terzo piano di un edificio di Soho, a Manhattan, dove si era trasferita nel 2002 con l’artista italiano Paolo Canevari, un grande amore ormai finito (ma non dimenticato). Il cognome sul citofono, scale ripide senza ascensore, un grande spazio che ha al centro una cucina il cui frigo contiene acqua e poco altro, sul pavimento un vogatore che Marina usa con regolarità. Qualche libro, un altarino con foto di un prozio patriarca della chiesa ortodossa, del suo cane Alba, morto tanti anni fa, del maresciallo Tito con la moglie campeggiano quattro pacchi di Costume National. Marina è orgogliosa dei nuovi vestiti e li appoggia sul bancone della  cucina per mostrarmeli. Cresciuta a Belgrado, nel tetro ascetismo comunista, la diverte la frivolezza ed è entusiasta di finire sulle copertine dei giornali di moda, non solo su quelli d’arte. Mi mostra le pagine di Harper’s Bazaar, dov’è fotografata con abiti del suo amico Riccardo Tisci, stilista di Givenchy. «Quanti artisti conosce che finiscono sulle pagine dei fashion magazine di tutto il mondo?». Descrive la nuova casa in cui sta per trasferirsi, «una townhouse (un’elegante casa a schiera urbana) a King Street, molto concettuale, con un giardino». Mi mostra anche le foto di un’altra dimora, che ha comprato vicino a Hudson, a un paio d’ore da New York. Le chiedo quale consideri sua vera casa, New York o Hudson. «La mia casa è il mio corpo. Io cambio luoghi come cambio un paio di scarpe. Sono totalmente nomade. Posso vivere ovunque. Ma sono molto brava negli affari immobiliari!» aggiunge divertita. Le chiedo delle sue due grandi storie d’amore. Dodici anni col fotografo tedesco Ulay, con cui ha vissuto una simbiosi artistica e sentimentale («Lo amavo tanto da non riuscire a respirare»), terminata nel 1989 con una performance memorabile: camminarono lungo la Grande Muraglia per 2.500 chilometri ciascuno - a lei il percorso più duro, sui monti – fino all’incontro in cui si dissero addio, continuando poi a litigare per un decennio. E altri dodici anni di amore con Paolo Canevari. Uomini pacati e riservati, mentre lei è entusiasta, volitiva, comunicativa: «Io do amore incondizionato». Le manca un nuovo legame? «Non ho tempo, adesso. È importante sapere qual è il proprio ruolo nella vita. Io ho delle motivazioni fortissime e molti progetti. La realtà è che la mia vita privata non conta, perché la nostra esistenza è breve, mentre l’arte dura molto più a lungo». Ha un corpo sodo e molto attraente. Le chiedo se
le siano rimaste cicatrici dalle performance. «Sì, dappertutto! È magnifico, è la vita. Mi sento piena di salute. E non fumo, non bevo, faccio ginnastica» dice mostrandomi i segni come fossero una mappa del tesoro. Si sente sexy? «Lo sono!».
Non è stanca di forzare i limiti della resistenza fisica? «Sin dall’inizio mi sono resa conto che il soggetto e l’oggetto del mio lavoro era il mio corpo, e sono diventata una performance artist. Erano gli anni Settanta ed è stato molto duro. Un po’ come essere la prima donna a camminare sulla luna. Allora si trattava di una prateria inesplorata. Oggi faccio il possibile per creare situazioni in cui le performance siano mainstream art». In luglio, a Manchester, Marina ha interpretato se stessa in una produzione teatrale di Bob Wilson, The life and death of Marina Abramovic. «Recito con Willem Dafoe, e le musiche sono di Antony and the Johnsons. È uno spettacolo che fonde musica, teatro e cinema, molto pazzo ed emozionante. L’ho dedicato a Paolo. La prossima tappa è a Madrid. Poi seguirò la tournée, almeno per un po’. Ma Bob mi ha detto di non preoccuparmi. Quando sarò stanca, mi vuole sostituire con Sharon Stone». Leggendo Quando Marina Abramovic morirà (di James Westcott, Johan & Levi editore), la sua biografia avvincente quanto una fiction, si rimane affascinati nello scoprire con quale determinazione Marina abbia lavorato, sin dagli anni Settanta, alla costruzione della propria mitografia. Il titolo è dovuto al fatto che Marina ha voluto che il libro si aprisse con le sue disposizioni per il funerale, dettaglio che la dice lunga sulla sua concezione della vita: una lunga performance, funerale incluso. 
 
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Le ferite di un’artista
Silenzi e coltelli.
Tatuaggi e lamette.
Sguardi e serpenti.
Quarant’anni
on the stage
 
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1973 
Rhythm 10
L’opera, teatro della crudeltà. L’artista poggia una mano a terra. Nell’altra, tiene un coltello. Prova a non colpirsi. Quando si ferisce, urla di dolore.

1974
Rhythm 0
Pratiche di autolesionismo. Resta ferma sei ore. Prima, sguardi curiosi. Poi, il pubblico la colpisce. I vestiti sono tagliati con lamette. La pelle è ferita.

1975
Lips of Thomas
Esplorare i limiti del corpo, fino all’autopunizione. Con un rasoio incide sulla pelle una stella a più punte. Un gesto che è tatuaggio e memoria mistica.

1983
Anima Mundi
Riscritture storicoartistiche.
Evidente il richiamo alla Pietà di Michelangelo. Sguardo al cielo, Marina sorregge il corpo del fotografo Ulay.


1988
The Lovers, 1988
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Il momento della sospensione. Un viaggio solitario lungo la Grande Muraglia. Per trasformare l’artista in una pellegrina in cerca di salvezza.


1990
Dragon Heads
Energie letali. Seduta su una poltrona rossa, è avvolta da cinque pitoni. Il corpo diviene “spazio” immobile, attraversato dai movimenti dei serpenti.

2010
The Artist is Present
Esercizi di silenzio. Per tre mesi resta seduta su una sedia del MoMA, senza dire una parola: i visitatori possono accomodarsi, in un dialogo muto
 

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